Questioni di qualità o solo formalità? Continuerò a non studiare a non lavorare a non guardare la tivù. A non andare al cinema a non fare sport. A evitare le insegne luminose che attirano allocchi. A non essere pigro di testa. A non mentire. Ma ben vestito, quello si

lunedì 5 settembre 2011

Una metafora di ciò che non siamo


... il rugby è spesso raccontato
con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne
conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico
primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto
testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di
comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi
siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io.
Credo che non sia coerente allora parlare di “follia”, di “caos”, di
«una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda
per niente caotica o folle. Quindici uomini contro quindici,
separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in
gara per conquistare l’area di meta e schiacciarvi l’ovale.
Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende
insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te
e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura
spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l’
apparenza, è l’esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue
manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel
gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma
istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una
placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza
gesuitismi o imposture.
Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l’odio è paura
cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale
prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione
gregaria, l’arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo
immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la
violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare
qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche,
comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella
specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il
metodo. La furbizia e non la lealtà. L’inventiva e mai la
preparazione. Il “miracolo” e mai l’organizzazione. L’individualità e
mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del “gruppo
chiuso” e mai il desiderio di farsi stimare da chi al “gruppo” (ceto,
famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di
un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l’ammirazione che suscita
nell’ avversario. Il rugby – la comprensione del gioco, della sua
nervatura, del suo spirito e consuetudine – spiegano, come meglio non
si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del
nostro stare insieme.
Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così
estraneo all’identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio
per riformarla.
Le prenderemo, ma non importa. 

Play up and play the man!


Giuseppe D'Avanzo

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